Pino, l'ultimo carbonaio di Bosa

10.07.2010 09:45

Pino è stato uno degli ultimi carbonai di Bosa.

Oggi ha 86 anni ma, le mani forti e la spalla sinistra leggermente scesa, narrano una vita di fatiche e sacrifici perché “un tempo”, come ci racconta, “si lavorava anche di notte e non c’era tempo per il riposo o per il divertimento”.

Al fresco della sua cantina tra i viottoli del rione antico di Sa Costa, ci offre un bicchiere della sua buonissima malvasia e si lascia andare ai ricordi di un passato fin troppo recente che acquista il sapore del ricordo e insieme della realtà di un’epoca che se n’è andata per lasciare il posto a quella di oggi, figlia immemore dei secoli trascorsi.

 

“Chi non è nato in quegli anni non può immaginare”, dice Pino, “come fosse vivere la quotidianità”. E noi sappiamo che ha ragione e proprio per questo è bello farsi trasportare dalla sua memoria perché leggere una storia nei libri di una biblioteca polverosa non è la stessa cosa che ascoltarla dalla voce di coloro che l’hanno vissuta in prima persona. In questo modo “La” storia diventa una storia, una delle mille che compongono il volto sfaccettato del passato, di un passato che ancora è presente tra noi nel patrimonio prezioso dei ricordi dei più anziani.

“Da piccolissimi i bambini già accompagnavano i genitori nei campi e imparavano a crescere a contatto con la natura e con i mestieri della terra. Così è stato per me” – racconta Pino – “quando da giovanissimo già andavo a lavorare”.

“E’ così che sono diventato un carbonaio. Per più di quarant’anni ho fatto questo mestiere, fino agli anni ’70 quando i tempi sono cambiati e, questo genere di lavoro, ha cominciato a non interessare più a nessuno. E’ allora che la campagna ha cominciato a venire abbandonata ed è un peccato perché non dà più i suoi frutti come allora, oggi che viene trascurata e tutti vogliono guadagnare tanto e faticare poco”. “Eppure fino a 5 o 6 anni fa ho continuato a lavorare nei campi, a raccogliere le olive, e fino agli anni ’80 avevo ancora il mio cavallo, l’ultimo che si vedeva circolare a Bosa, un prezioso compagno di lavoro che dormiva nella cantina, proprio dove vi trovate voi adesso, quando la utilizzavo come stalla. Poi l’ho dovuto vendere perché le macchine sono aumentate e andare in giro con il cavallo non era più possibile”.

Ci mostra antichi gioghi per i buoi, le briglia che conserva dei cavalli che ha avuto e ci spiega come siano i cimeli della sua vita spesa nelle campagne di Bosa che – come ci dice fiero –, lui conosce palmo per palmo, avendole percorse in lungo e in largo. “Non c’è, in tutta Bosa, pianta che la mia mano non abbia sfiorato e campo in cui io non abbia lavorato”.

La serena semplicità che alberga nei suoi gesti e nel modo amichevole di fare è una riprova del temperamento forgiato dalla vita all’aria aperta, dal contatto con le cose più vere: l’aria, la terra, il mare. Pino aleggia di una semplicità che non è ignoranza, è schiettezza. E’ anziano ma dimostra molto meno. E’ una persona trasparente, dai modi dignitosi, temprati dal lavoro. Ogni cosa che ha se l’è sudata, eppure c’è umiltà nel modo fiero in cui parla dei suoi sacrifici.

“Ci si svegliava di notte la domenica per avviarci nei campi dove avremmo dovuto fare il carbone” – ci rivela – “e non si tornava a casa fino al venerdì sera, a volte si stava via anche per sette giorni di fila perché la strada era molta e si andava a piedi”.

“Da Bosa spesso raggiungevamo le colline sopra Capo Marargiu. Tra andare e tornare erano anche 40 km su strade che non erano quelle di oggi, dei semplici sentieri che facevano parte del Cammino Reale. Ora sono andati perduti perché non li percorre più nessuno. Per dormire e vivere all’aperto tanti giorni dovevamo costruire delle capanne in campagna, fatte con pietre e frasche e non c’era la comodità dei bagni o acqua diretta per bere o per lavarsi. Bevevamo dai ruscelli, dalle pozze d’acqua in terra ma era acqua pulita perché non c’era inquinamento”.

Ride quando gli chiediamo se quest’attività s’interrompesse d’inverno. E’ dura immaginare degli uomini in aperta campagna, in alto sulle colline mentre i freddi invernali imperversano, soprattutto di notte quando la temperatura scende, oppure durante le piogge. “Avevamo il cappotto, lungo, a volte fino ai piedi” ci risponde. “E poi era raro che ci si ammalasse come i ragazzi di oggi. Oggi stanno male tutti ma un tempo non era così. C’erano delle famiglie più soggette di altre ad alcune patologie ed il medico le conosceva ma tutti gli altri erano in salute. E’ che l’acqua e l’aria erano buone e quello che si mangiava erano solo cose sane. Mangiamo tutti pane, l’alimento che poteva essere trasportato in campagna e che poteva senza prodotti chimici, senza pesticidi, senza inquinamento durare giorni e giorni e se finiva eravamo costretti a scendere a Bosa per prenderne altro e ce lo facevamo bastare. In tanti anni non è mai successo che qualcuno si sentisse male in campagna, che si fratturasse una gamba. Io però, una volta, mi sono fatto male con una spina molto grande di un arbusto che mi è rimasta conficcata nel dito più di un mese in cui è stato impossibile lavorare, un’esperienza molto brutta perché senza lavorare non si riusciva a mangiare”.

“Nei campi ci alzavamo verso le due, tre di notte per cominciare il lavoro perché la notte era più fresca del giorno e si procedeva meglio”. Quando gli chiedo come illuminassero la boscaglia mi risponde con un sorriso che “bastava la Luna”.

“Dovevamo sfoltire le radici degli arbusti, lasciando quelle principali e togliendo le altre secondarie che si trovavano anch’esse al di sotto del livello della terra per cui c’era da scavare. Anche sopra la pianta veniva sfoltita ed alleggerita dei rami superflui attraverso una potatura per far sì di togliere tutto quello che andava bruciato e lasciare però intatta la pianta di modo che potesse ricrescere per la stagione successiva”. “Dopodiché si preparava la ‘piazza’ molto ampia in mezzo a cui si lasciava una sorta di ‘bocca’ circolare d’areazione attorno alla quale veniva accatastata la legna in ordine di dimensione, partendo dalla legna più grande al centro perché brucia più lentamente, fino ad arrivare ai pezzi di legna più piccoli all’esterno che impiegano meno tempo a carbonizzarsi. Coprivamo il tutto con della terra inumidita che poi si seccava creando una camera di combustione e fatto questo si accendeva la fiamma e si lasciava bruciare finché non si otteneva il carbone”. “Non si vedeva il fuoco ma solo un filo sottile di fumo”.

“Una volta ottenuto il carbone il terreno che avevamo perlustrato alla ricerca di rami e radici era completamente pulito ed allora, per i proprietari di quelle terre, procedevamo a seminare il grano o il fieno per le bestie”.

Quando gli chiediamo quanto venissero pagati i carbonai la risposta ci sorprende perché, a fronte di un lavoro così duro, la retribuzione consisteva nel poter prendere una parte del carbone prodotto. “L’altra parte veniva lasciata al padrone, mentre la nostra la potevamo vendere e così, dai soldi guadagnati, ci pagavamo le giornate di lavoro”. “Non era considerato un servizio da pagare quello della pulizia delle campagne che effettuavamo producendo il carbone. Erano tempi diversi”, ci ricorda Pino.

Si, erano tempi diversi, tempi nei quali ci si accontentava di poco, si lavorava sodo e si era più grati.